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Festa della Liberazione | 25 Aprile 2025

80 anni di libertà - festa della liberazione - 25 aprile 2025

 

25 Aprile 2025, Festa della Liberazione

Testo tratto dal libro di Alba de Cespedes “E’ una donna che vi parla, stasera”

 

Gente d'Abruzzo

Stasera voglio parlare di voi, gente d'Abruzzo. Forse pochi di voi mi ascolteranno: nelle case devastate dai tedeschi la radio fu una delle prede più gotte. Ma lasciate che io vi parli ugualmente sottovoce, come si faceva accanto al fuoco. Vorrei tentare di farvi intendere quello che siete stati per noi. E quel che vi dobbiamo. Eravamo partiti tutti repentinamente, ci eravamo ficcati in un treno senza valigie, senza indumenti, o avevamo preso a camminare nei campi senz’altra guida che il disegno delle stelle. E non avevamo più nulla dentro di noi, solo l'umiliazione di andare per le strade del nostro paese al modo di malviventi o di stranieri. Temevamo che la nostra vita non fosse più cara ad alcuno, un bosco ci avrebbe attesi o un rifugio, dove la nostra sorte sarebbe stata indifferente a quanti erano intorno. Neppure nel nostro popolo, nei nostri fratelli, credevamo più: dopo l'armistizio alcuni si erano messi al fianco dei tedeschi, gli avevano consegnato città, caserme, piazze, altri ci avevano aspettati, armati, a un angolo di strada. Non c'era più posto per gli entusiasmi in noi: nauseati dalla retorica che per tanti anni ci era stata gridata dai balconi, avevamo vergogna di ogni gesto d'amore e di solidarietà verso un fratello come di un sentimento da libro di lettura.

Così giungemmo, carichi di mota e di stanchezza, in vista delle vostre case, gente d'Abruzzo; e ad esse, palazzi o fattorie, guardammo intimoriti temendo che anche a voi fossimo estranei, che tutti fossero estranei, indifferenti l'un l'altro, ormai, nella terra d'Italia. Ma le vostre porte, ovunque, arrivassimo, erano aperte. Dove sei, cara ragazza che arrossisti venendo sulla soglia ad offrirmi, senza sapere niente di me, il pane e il sale in segno di amicizia?

Entravamo nelle vostre case timidamente: un fuggiasco, un partigiano, è oggetto ingombrante, un carico di rischi e compromissioni. Ma voi neppure accennavate a timore o prudenza: subito le vostre donne asciugavano i nostri panni al fuoco, ci avvolgevano nelle loro coperte, rammendavano le nostre calze logore, gettavano un'altra manciata di polenta nel paiolo. Finanche i bambini, muti complici, si affacciavano alla porta per spiare se qualcuno ci seguisse. Del resto, intorno al vostro fuoco già parecchie persone sedevano e alcune stavano lì da molti giorni. Erano italiani, per lo più: ma non c'era bisogno di passaporto per entrare in casa vostra, né valevano le leggi per la nazionalità e la razza. C'erano inglesi, romeni, slovacchi, polacchi, voi non intendevate il loro linguaggio ma ciò non era necessario; che avessero bisogno di aiuto lo capivate lo stesso.

Che cosa non vi dobbiamo, cara gente d'Abruzzo? Ci cedevate i vostri letti migliori, le vesti, gratis, se non avevamo denaro: Era stato un anno duro per la raccolta: poche olive, poche patate, il grano non si poteva macinare perché i tedeschi toglievano la corrente ai mulini, non avevate farina, guardavate con terrore il sacco scemare e ce ne facevate parte ugualmente, stappavate per noi le bottiglie di vino cotto che erano in serbo per le nozze o i battesimi. Due di voi lavorarono, senza sosta, per scavarci un rifugio nella roccia, sulla sponda di un torrente. E spesso, di notte, uno di voi partiva per guidare un patriota verso le linee del fuoco a raggiungere la libertà.

Così a poco a poco in noi la speranza rinasceva: questo è il nostro popolo, pensavamo, generoso, accogliente, cortese, non lo riconoscevamo più sotto le divise nere, le aquile di falso oro, emanatore di inumane sentenze. Noi giovani, soprattutto, lo incontravamo per la prima volta. E vedendo riuniti attorno al vostro fuoco gente di diversi paesi, di religione diverse, cominciavamo a sperare che sarebbe iniziata per noi una vita libera e civile, senza più sotterfugi, un'affettuosa comprensione dei diritti altrui.

Partivamo così verso le linee, felici. Tornavamo indietro di tanti anni, quanto anni? Alcuni - che lo potevano- fino a certe giornate ardenti, della guerra mondiale, altri erano commossi e inebriati come all'inizio di un nuovo amore.

Noi giungemmo al tramonto nella zona che i tedeschi avevano sgombrato. Non c'erano case lì intorno: il terreno era una distesa grumosa di fango, nel quale camminavamo faticosamente da lunghe ore. Pioggia, acquazzone dirotto. Ma a poco a poco il cielo si rischiarò e un grande arcobaleno cinse la valle. Apparvero i primi campi coltivati, tinti del verde tenero del grano appena spuntato come quasi per una seconda primavera. Camminavamo in silenzio, gambe e scarpe di creta, i capelli e gli indumenti ammolliti dalla pioggia. Finché una fattoria apparve, tutta bianca. E da lì un vecchio ci mosse incontro:” da dove venite?” chiedendo ansiosamente. “Dalle linee?” E si stupì. “Avete passato il fiume? Anche queste due donne?” E allora, d'impeto, con gli occhi lucidi ci strinse ad uno ad uno in un abbraccio. Dove sei tu, vecchio Olinto? Tutto è pace ormai nella tua casa: i tedeschi sono lontani, gli uomini sono rientrati dai boschi, col bestiame. A quest'ora tu dormi nel gran letto bianco che mi cedesti, sotto l'odorosa cornice di mele rosse conservane nel ramo. E non mi senti lo so: nella tua casa non c'è luce, né radio. E del resto tu che m'hai accolto e sfamato, non hai neppure chiesto il mio nome. Ma io voglio parlarti ugualmente, vecchio Olinto, per quell'abbraccio che ci desti lì, sull'aia, e che fu il primo saluto, il primo cenno d'affetto che ci accolse nell'Italia libera. Il tuo abbraccio, la tua accoglienza, e la voce con la quale chiamasti per la casa tua moglie, Ninetta, Ninetta, a farci festa: “Questa è una grande giornata per la casa di Olinto!” dicesti. Finché ci sarà gente come te ci sarà sempre ragione di aver fede, gran fede nel popolo italiano. Questo avevamo bisogno di sapere, arrivando qui. Questo sappiamo adesso, mio vecchio Olinto, mia cara, cara gente d'Abruzzo (2).

 

Note biografiche

  1. Alba de Cespedes è nata a Roma nel 1911; il padre, Carlos Manuel de Cespedes, per un breve periodo Presidente del suo paese e considerato padre della patria perché combatté contro gli spagnoli per liberarlo, dopo un attentato lasciò il paese e divenne ambasciatore a Roma. La madre, Laura Bertini Alessandri, era una ricca borghese romana. Nel 1938 Alba pubblica il suo primo romanzo; contrastata dai fascisti, fu incarcerata per qualche giorno per aver parlato male della guerra d'Abissinia. Per tutta la sua vita si dedicherà alla scrittura. Nel settembre del 1943 fugge da Roma con il compagno Paolo Bounous (sposatasi a 15 anni , aveva lasciato il marito) diplomatico, camminerà per trentasette giorni nascondendosi tra le montagne, in rifugi di fortuna nelle rocce e nelle campagne per arrivare a guadare il fiume Sangro e attraversare le linee nemiche ( la linea Gustav, che divideva in due parti la nostra regione) e raggiungere Bari, dove opererà presso l'Ufficio stampa del Comando supremo degli Alleati e ogni sera alle ventitré , con il nome di Clorinda (da Torquato Tasso)manderà in onda la sua trasmissione “L'Italia combatte”, in cui faceva propaganda contro l'invasore tedesco, dando aggiornamenti sulla resistenza partigiana, trasmettendo operazioni, in codice denunciando i delatori. Alba si rivolgeva a tutti ma in particolare alle donne, raccontando, esortando, spiegando come ognuno poteva boicottare il nemico.
  2. I tedeschi uccisero il figlio di Olinto che accompagnava un patriota travestito, fino al loro campo. Li uccisero tutti e due, lui morì di crepacuore.